Sesso e disabili: il vero handicap sta nei dirittiNel bel film “Tornando a casa” (1978), di Hal Ashby, la protagonista femminile fa l’amore con ex militare rimasto mutilato in Vietnam. In uno dei capolavori di Ingmar Bergman,”Il silenzio” (1963), una donna gravemente ammalata si masturba pur sapendo di essere vicina alla morte. Scene ritenute scabrose, che fecero anche un certo (o un notevole) scandalo ai tempi dell’uscita delle pellicole, ma che ponevano (o proprio perché lo ponevano) un interrogativo che tuttora trova risposte sporadiche o parziali, credo, riguardo alla sessualità di persone disabili.
Oddio, non sta certo a me sostituirmi a un portatore di handicap (sia esso fisico, sensoriale, mentale, da trauma o da malattia; e qualcuno considera erroneamente e fraudolentemente in questo novero, dal punto di vista della capacità erotica, anche le donne in menopausa) e rivendicare in sua vece un diritto; perché di diritto si tratta, oltre che di una pulsione come in ogni essere umano: ci sono tanti individui in tali condizioni che questo lo fanno già, a voce alta e in numerose sedi. Ma ho la netta impressione che nel sentire comune queste legittime prese di posizione cadano piuttosto nel vuoto: a prestare loro orecchio sono in genere solo altri disabili oltre a medici, sessuologi, operatori sociali. Almeno, per quel poco che ne so.
Una volta si tendeva a tenere nascosto l’handicap di un familiare o di una persona cara. Oggi è un po’ diverso: li si mostra, e ci si mostra con loro, sollecitando considerazione, assistenza, welfare, la soddisfazione di bisogni primari e non solo. A maggior ragione in un periodo di tagli selvaggi soprattutto allo stato sociale, con carenze sempre più gravi, non ultima quella degli insegnanti di sostegno nelle scuole, e servizi demandati al volontariato, laico ma specialmente religioso. Ma un periodo, pure, nel quale si parla con crescente frequenza (e giustamente, c’è da sottolineare) di diritti fondamentali, costituzionali, messi a rischio da comportamenti e da scelte dei nostri governanti, e quindi a maggior ragione da salvaguardare e valorizzare. Principi per cui vale la pena battersi.
Tutto giusto, tutto sacrosanto. La protezione, l’assistenza e resto. Tutto tranne il sesso, però. Di quello sembra che in apparenza (a dire degli “altri”, i “normali”) loro non abbiano alcun desiderio e nemmeno bisogno. Di quello non si parla e tantomeno si interrogano loro, i disabili, i “portatori” di questa istanza ineludibile (per chiunque). Anzi, accade piuttosto di frequente, al contrario, che giustifichiamo una moglie o un marito che avendo il coniuge disabile cerchino sesso altrove: deve pur sfogarsi, poverino/a, se no come vive? Pur assicurando alla persona cara tutto l’aiuto e tutta la solidarietà di questo mondo. Accade spesso, sì e penso di poterne parlare a ragione avendone avuto qualche esempio abbastanza vicino.
Il nodo è che non si riesce tuttora a fare a meno, o meglio non si rinuncia a considerare il portatore di handicap esclusivo “oggetto” di aiuto e anche di pietà, invece che “soggetto” portatore di diritti. I diritti a cui ognuno di noi ha diritto. Anche e soprattutto quello di fare sesso. A volte perché si pensa che non siano belli da vedere (spesso, davanti a un discorso simile, magari appena accennato, la prima reazione che si sente – che ho letto e sentito – è: “Che schifo. Ma come puoi pensare a una cosa del genere?”): corpi imperfetti, deformi, mancanti di qualcosa, espressioni del viso non usuali, pensieri devianti, perfino desideri inconsueti… Altre volte perché si ritiene che in presenza di una malattia, di una limitata capacità di iniziativa e di movimento, muoiano la bellezza (specie quella patinata, artificiale, iper-curata oggi tanto di voga, che omologa aspetti quanto modi di vestire) e anche la pulsione. “Ma insomma, come potrebbero fare, poi…”. Come se il sesso fosse fatto solo di acrobazie da kamasutra, viene da rispondere. Come se non esistessero le carezze, innumerevoli forme e gradi di intensità del contatto fisico: per fortuna nell’eros non ci sono (o non dovrebbero esserci) limiti all’ispirazione e all’inventiva. Che non farebbe male, tra parentesi, nemmeno ai “normodotati”. Anche se tuttavia mi è capitato di sentire qualcuno insistere, con la preoccupazione negli occhi: “Metti che poi venisse loro in mente pure di procreare…”. Uno scempio. Uno scandalo.
Meglio non parlarne, allora. Che l’argomento resti al più limitato alle discussioni degli specialisti, fra gli “addetti ai lavori”. L’importante è che non si veda, che non si mostri. Al solito: proprio come per gli omosessuali, i transessuali, i “diversi” in genere. Ancora più importante, e peggio ancora, è che il diritto al sesso non si rivendichi pubblicamente. C’entrerà anche la preponderante presenza della Chiesa cattolica, qui in Italia, oltre a quella cura ossessiva del corpo nella quale in tanti cercano una sorta di “immortalità”? Attraverso la quale sentirsi “potenti” ed esorcizzare l’inevitabile decadenza del corpo nel tempo? Un fatto è che all’estero questo problema è stato posto e qualche soluzione si è pure escogitata. In nazioni come la Svizzera, la Svezia, la Germania, l’Olanda, la Danimarca, la Gran Bretagna, perfino la Spagna, sono nate vere e proprie organizzazioni che forniscono ai disabili assistenti sessuali, in alcuni casi prostitute o gigolò ma in maggioranza personale addestrato e specializzato in campo sanitario e sociale: infermieri/e, fisioterapisti/e, massaggiatori/trici e quant’altro.
Si potrebbe obiettare, certo, che si tratta spesso di prestazioni a pagamento. Ed è vero, a quanto ho avuto modo di appurare: il che rende “di classe” (riservato a chi ha sufficienti mezzi economici) un diritto che invece dovrebbe essere alla portata di tutti. Benché in qualche Paese sembra che questo servizio sia finanziato dalla cassa mutua. Ma si tratta in ogni caso di una soluzione, inutile negarlo, che ha il merito di portare alla luce un discorso fino a pochi anni fa considerato un vero e proprio tabù. Che invita a discutere. Soprattutto a pensarci. A tenerlo presente. Tutti. O almeno, dovrebbe. Tenendo presente che sono i “difetti”, e non certo le “perfezioni”, a rendere particolare una persona. A farla “unica”, in una parola. Potrà suonare come un discorso soltanto teorico o, peggio, letterario, me ne rendo conto: “Fai presto a dirlo tu, che non ti ci trovi…”. Ma chi può affermare con assoluta certezza che ognuno in fondo non abbia il suo handicap, i propri limiti fisici o mentali? A cominciare dall’età che avanza, spesso, o dal semplice ma sconvolgente disagio di stare al mondo. In “questo” mondo. Oppure la nevrosi, lo stress, le varie forme di depressione, i piccoli e grandi malanni quotidiani…
La verità, si potrebbe concludere, è che quando si parla di disabili viene fatto di pensare che il vero handicap sono i diritti. Non solo i loro, quelli di tutti. E tutti. Quei diritti spesso negati qui in Italia e per i quali non soltanto vale la pena, ma è sempre più urgente battersi. Per contribuire a cambiare davvero (anche alla luce delle speranze suscitate dalle recenti elezioni) l’andazzo delle cose.
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